Alcuni dei laboratori proposti ai ragazzi della scuola A. Volta di Cornigliano erano stati pensati e progettati per i loro compagni dello scorso anno, se non dell’anno prima ancora. Ma questo riproporre non è dovuto ad un pericoloso adagiarsi, ma è invece dettato dall’opportunità di notare le piccole ed interessanti differenze che rendono l’esperienza unica, sia per il ragazzo che per il laboratorista.

L’attività proposta, in questo caso, seguiva un primo incontro che aveva portato la classe intera a provare a sentirsi gruppo, a pensare all’altro e al sé in relazione all’altro – fatto questo certamente non facile, o scontato. In questo laboratorio si andava invece oltre, e si riportava bruscamente l’attenzione su di sé, chiedendo ai presenti di rappresentarsi, avendo a disposizione un certo tipo di penna, e un certo tipo di foglio, in modo tale che le rappresentazioni risultassero il più possibile consistenti tra di loro: al termine, ognuno si sarebbe anonimamente mostrato, e nella profonda eterogeneità dei lavori il tratto e la particolare carta li avrebbe avvicinati, mettendoli tutti sullo stesso piano, nella ricchezza delle loro differenze.

E’ durante lo svolgimento di questa attività che noto uno dei ragazzi della 2F, Samuel (nome di fantasia): cattura la mia attenzione perché sin dal momento della spiegazione iniziale non aveva più rialzato lo sguardo, né per parlare con un compagno, né per chiedere qualche spiegazione ulteriore.

Samuel lavora in maniera precisa, a testa china, solo dopo più di mezz’ora rialza finalmente il capo, e dopo aver scrutato brevemente il disegno nel suo insieme esclama: “Questo non sono io”. Mi avvicino, e subito i due compagni al suo fianco lo rincuorano, facendogli notare come la maglia sia la sua, i capelli siano i suoi, addirittura la postura sia proprio la sua, e non lesinano complimenti per i dettagli minuziosi. Samuel non risponde, né a loro né alle mie osservazioni, il suo unico gesto dopo alcuni istanti è quello di allungare il braccio verso la cartella posta di fianco alla sedia, e di tirare fuori un foglio appallottolato, dello stesso colore e grammatura di quelli dell’attività: evidentemente un primo lavoro reputato non adeguato. Lo pone sopra l’altro foglio, lo stira con le mani, rivelando un disegno molto più semplice, molto più essenziale, evidentemente fatto di getto, meno “bello” secondo i canoni più scolastici del termine, ma certamente più rappresentativo, più profondo ed intimo, qualche centimetro sotto la buccia esterna.

Samuel mi porge entrambi i fogli: “Eccomi. E ora?”.